Innanzitutto c’è da fare chiarezza su quello che è forse, il peccato capitale meno chiaro e capito da tutti. L’accidia non è pigrizia, noia, voglia di non fare nulla. O meglio, non solo. L’accidia è una situazione di indifferenza e instabilità nei confronti della vita. Ovvero insoddisfazione per quello che si ha e che si fa, voglia di fuggire dalla realtà o di cambiarla, quello che più comunemente si manifesta con la voglia spasmodica e continuativa di cambiare casa, lavoro, automobile, nonostante quello che già si possiede sia qualcosa di difficilmente criticabile. Fuggire da questa realtà per cercare una realtà propria ma irreale, utopica. Così come capita quotidianamente a me.
Volevo essere Gilmour. O meglio, avrei voluto essere come Gilmour. Da sempre la musica è stata la parte più costante e importante della mia vita. Ricordo come fin da bambino, oltre a mettermi di buon umore e rendermi felice, come tutti gli altri bambini, quando ascoltavo della musica si attivavano in me processi straordinari, unici. Certo, fino ad una certa età la maggior parte della musica che ascoltavo erano gli lp di Minghi e Venditti che collezionava mia madre, e non è che mi facessero poi grande effetto. Ma già durante il ginnasio, quando con i compagni ci scambiavamo le audiocassette registrate dai dischi originali, iniziai a decodificare che certe emozioni, certe sensazioni, avevano radici molto profonde dentro di me. Ricordo ancora lo stupore e l’innocenza di quando ascoltai per la prima volta “Vedicara” di Guccini, o quando, sempre per la prima volta, bevvi tutto d’un fiato “The dark side of the moon”. Sul cinque quarti di Money capii che la musica sarebbe stata una malattia dalla quale sarei guarito difficilmente.
Era il marzo del 1998 e una febbre di stagione mi colpì. Allora non c’era internet o playstation a far compagnia durante la malattia (o almeno io non ne avevo) e allora mia zia ebbe la sciagurata idea di rispolverare dalla soffitta una chitarra appartenuta a mio cugino, reperto di una delle sue fugaci passioni. Iniziai quindi a strimpellare melodie del tutto dissonanti, poi ad accostare le note in forma più armonica come negli accordi. Crebbe velocemente in me la voglia di esplorare quelle sei corde in tutte le forme possibili ed immaginabili, perché la musica che ne uscisse fuori potesse essere il giusto complemento all’oggetto dei miei pensieri. Passai giornate intere a studiare le composizioni più affascinanti di De Andrè e di Dylan, sognando un giorno di sposare musica e parole così come avevano fatto quei grandi maestri. Ma la padronanza dello strumento mi portò velocemente fuori strada e quella che era nata come una vocazione, si trasformò ben presto in una spasmodica ricerca del successo, in una voglia irrefrenabile di arrivare lì dove le voci che suonavano nel mio giradischi erano arrivate. Terminai con molte difficoltà le scuole superiori e allora mi dedicai anima e corpo alla musica. Ma forse questa è la più grande bugia. Dedicai molto del mio tempo alla musica, organizzando concerti con un complesso col quale facevamo tutto rock anni ’70, per lo più Pink Floyd. In un contesto sociale come quello di piccole realtà montane, arrivò subito un modesto successo che appagò, seppur flebilmente, il mio desiderio di fare strada nel mondo della musica.
Una dicotomia tra il vivere intensamente il presente, fatto di palchetti, lucette e interessi di coetanei poco più che adolescenti, o buttare basi solide perché il futuro potesse riservarmi qualcosa di più importante che essere la guest star della sagra del tipico prodotto locale. Persi così di vista quella che era la realtà attorno a me e persi di conseguenza quella che era la direzione verso il mio futuro di sogni, che dal piccolo avrei potuto coltivare. L’angoscia e l’ansia verso ciò che doveva essere subito e che invece sarebbe stato domani se in quell’oggi avessi lavorato a dovere. Persi la tensione che quelle notti di note estive avevano creato dentro di me. Mi persi. Mi iniziai, spesso, a piangere addosso. Ad un certo punto feci uscire anche la storia che ero diventato troppo vecchio e che ormai ero out dal mondo della musica. Intrapresi così altri percorsi di vita lavorativa e sociale.
Oggi, a venticinque anni ho un lavoro a tempo indeterminato, una casa, una macchina, una moto, una splendida compagna eppure sogno ancora di essere Gilmour. A febbraio mi sono pagliato un po’ il cuore suonando all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sicuramente non la festa del patrono del paesino sul cucuzzolo della montagna. L’amarezza è stata tanta nel pensare che quello sarebbe potuto esser stato il mio lavoro, se solo l’accidia non mi avesse attaccato come la tignola fa con la vite mentre in estate prepara l’uva per la vendemmia autunnale. Molti rimpianti, tanta tristezza e una buona dose di insoddisfazione. Restano ancora i sogni che spesso di notte mi colgono mentre suono alla Royal Albert Hall di Londra le canzoni che hanno segnato la mia esistenza. E quella bugia di essere troppo vecchi, che mi aiuta a guardare avanti.
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