28 dicembre 2006

Frammenti di un Natale di fil di ferro e spago

Fumano bassi i camini. La montagna è un insieme di tronchi e di rami spogli di foglie, un insieme di tante tonalità di marrone macchiate dalla neve scesa nei giorni precedenti. Il paese è un abbraccio di case addossate alla montagna, accarezzate dal fiume che gli scorre accanto e che disegna lungo il suo percorso rapide e cascate mozzafiato. Lungo i muri a pietra delle case strappi di muschio e di felcetta, asportata qua e là per abbellire i vari presepi. Nei vicoli il vento freddo spazza il selciato blu. Giù, nella piazza davanti alla chiesa, due piccoli abeti posti ai lati di un’antica croce in ferro battuto, brillano sotto il sole invernale di palline ed addobbi natalizi.
Tutto si risveglia con lentezza, la vita si muove dolcemente.

Scendendo le scale dal piano rialzato dove si trovano le camere da letto, noto subito come, davanti al camino acceso, mia nonna stia sistemando la legna più grande, quella che si usa quando il fuoco è già maturo, perché possa riscaldare la nostra colazione. Sul tavolo latte, panettone, cioccolata spalmabile, mandarini, noci, nocchie e tutto il ben di Dio che si usa mangiare in questo periodo. Poco più in là, sulla stufa a legna, bolle già lentamente il sugo per il pranzo. Sotto l’albero ed il piccolo presepe qualche pacchetto colorato contenente i desideri di chi è stato buono. Mi arrampico goffamente su una sedia ed inizio ad assaggiare i vari sapori.
Non ci sono radio o televisione accese, solo lo scoppiettare del fuoco a fare da sottofondo al nostro parlare. La porta vetrata filtra fiocamente la luce dalla facciata ovest della casa e colora di giallo ocra la stanza.

Nascosto sotto la sciarpa di lana rossa e infagottato nel mio cappottino, metto il naso fuori dalla porta: c’è un profumo diverso questa mattina. L’odore della cantina aperta e del fumo sbuffato dai comignoli si mischia acremente. A piccoli passi esco dal vicolo di casa mia ed ecco mostrarsi davanti a me la valle: il luccicare della rugiada distesa lungo i campi ed irradiata dal sole mi fa arricciare gli occhi. Faccio un respiro profondo. Giù per la strada che si snoda tra le case, ascolto i rumori e le parole dei miei compaesani ovattate dai vetri delle finestre. In qualche angolo d’ombra c’è ancora un po’ di neve che con la gelata della notte ha assunto una forma più solida. Vado lentamente verso valle e incontro Pasqualina, Fantina, Guerrino e Valeria, e tutti mi stringono forte, tutti mi baciano e mi invitano ad entrare nelle loro case. Li sento come nonni adottivi e loro come un nipote trapiantato lì da un destino bizzarro, incontrollabile, a volte crudele. Tappa dopo tappa arrivo alla piazza del mulino: lì accanto, nel suo alveo naturale, scorre velocemente il torrente che scende dalla montagna carico d’acqua. Non sembra più arrabbiato come nei giorni scorsi, quando con la sua forza portava con sé foglie, rami e quanto trovasse sul suo cammino. Ne seguo il percorso per qualche decina di metri, fino ad arrivare alla piazza della chiesa. Lì, sul portone color rosso cardinalizio, mi aspetta Italina mentre prepara il vaso di fiori da mettere sotto all’altare e quello da mettere sotto alla statua di Sant’Andrea. Aspetto seduto tra i due abeti che arrivi quasi l’ora della messa. I miei occhi corrono a destra e a sinistra, tra una finestra che si apre su in paese e il gracchiare sporadico degli uccelli giù nei campi. Percorro la navata centrale e mi infilo dietro al presbiterio, poi dentro alla saletta della vestizione ed infine nella sala sotto al campanile: lì due catene collegate alle campane spuntano dal soffitto. Sul termine di una, qualcuno ha legato un piccolo bastone per aiutare chi la dovesse suonare. Le stringo forti a due mani ed inizio a suonarle: il fragore del batacchio sulle pareti delle campane si propaga per tutta la vallata. La gente esce piano dalle case abbottonata nei loro paltò. E un saluto gira veloce tra la gente: “Buon Natale!”.


/Mauro Giorgini/



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