26 dicembre 2006

IL LAVORO NOBILITA L’UOMO

Era contento del suo nuovo lavoro, non vedeva l’ora di cominciare. Certo il primo giorno sarebbe stato un po’ noioso come tutti i primo giorno e ancora non capiva la lingua, ma certo se la sarebbe cavata.
Trenta euro al giorno non erano molti ma nemmeno pochi per lui, e se fosse andata bene avrebbe lavorato quasi tutti i giorni, seppur in nero. Anche se non lo aveva mai fatto, pensava che lavare i piatti non fosse così difficile.
Arrivò al ristorante con un quarto d’ora d’anticipo. Gli diedro un pantalone ed un grembiule e lo indottrinarono bene: per prima cosa doveva pulire i bagni sia quelli a disposizione dei clienti sia quelli di cui usufruivano loro dipendenti. Poi doveva mettersi a disposizione dei due cuochi della cucina di cui gli sembrava di capire ce ne fosse uno più importante (di certo erano entrambi più importanti di lui).
Cosi fece e quindi dopo aver lavato i bagni andò da quest’ultimi che prima gli mostrarono le collocazioni di tutti gli oggetti che una volta lavati doveva riporre al loro posto, poi lo istruirono a pulire le cozze. Stette quasi un ora a sfregare con un coltello sui gusci dei grossi mitili che gli procuravano spesso graffi sulle mani. Terminata questa operazione incominciò a lavare piatti, anche se in realtà di piatti ancora non ce ne erano, più che altro lavò pentole e grossi contenitori di plastica e altri utensili che erano serviti fino a quel momento in cucina per prepararsi all’arrivo dei clienti.
Finalmente andarono a cena, al vantaggio di ricevere un pasto gratuito non ci aveva pensato, mangiò un piatto di pasta che trovò delizioso. Nonostante lavare i bagni e peggio pulire le cozze non gli fosse piaciuto, la cena lo mise nuovamente di buon umore.
Finita la cena gli fecero pulire le patate. Ce ne erano due grossi sacchi, mentre lo faceva uno dei due cuochi (quello che doveva contare di meno) lo rimproverò duramente e anche se non poteva capire quello che gli stesse dicendo, capì che doveva essere più veloce. Allora cercò di continuare più veloce possibile, ma la fretta lo fece tagliare su di un dito, per paura di essere considerato un inetto e perdere quel lavoro non disse niente a nessuno. Intanto nel tempo che lui aveva impiegato a sbucciare patate tre ragazzi che partivano dalla cucina con piatti pieni ed invitanti avevano iniziato a riempire il suo grande bancone con gli stessi piatti ma svuotati (parzialmente o completamente) del loro contenuto. Da quel momento incominciò a lavare piatti e non fece altro per quattro ore. La montagna di roba in equilibrio precario sul suo bancone non smetteva di rigenerarsi ad ogni passaggio dei ragazzi. Incominciò presto ad odiare pentole e teglie dove il cibo rimaneva incrostato e richiedeva molto fatica toglierlo, scoprì come, se raggruppava oggetti della stessa forma e dimensioni, questi c’entrassero meglio nella lavastoviglie rispetto ai gruppi eterogenei. Le sue mani, talvolta le sue braccia fino ai gomiti, erano continuamente immerse nell’untuosa soluzione di acqua, sapone e resti di cibo.
Ad un certo punto un ragazzo per la fretta lancio un paio di piatti sul bancone senza curarsi troppo di dove andassero a finire, questi provocarono un effetto domino che ne fece bruscamente scivolare altri, nel lavandino (e fortuna volle che non caddero a terra) gli schizzi di quell’acqua sporca gli arrivarono sul volto, non era la prima volta che si schizzava quella sera, ma quella gli diede più fastidio delle altre.
Quando incominciava ad essere nauseato da tutti quegli odori e incominciava a chiedersi quanto mangiassero questi italiani, finalmente la montagna sul suo bancone incominciò a ridursi, ormai i ragazzi portavano solo piattini, coppe e cucchiaini, pensò di aver ormai finito, ma una nuova ondata di pentoloni, padelle, coltellacci ed altro invase il suo bancone: stavano chiudendo la cucina e tutto ciò che era stato usato andava lavato. Per la stanchezza e la voglia di sbrigarsi incominciò a grattare direttamente con le sue dita,oltre che con la paglietta o la spugna. Stavolta aveva veramente finito con i piatti, così uno dei due cuochi (quello che contava di meno, l’altro se ne era già andato) gli fece capire che toccava a lui spazzare e passare lo straccio sul pavimento della cucina, oltre a pulire il suo bancone, senza dimenticare le pareti adiacenti piene di schizzi di sugo, di olio e chissà che altro.
Uscito dal ristorante era distrutto, le sue mani che sentiva come fossero diventate di sabbia, improvvisamente inaridite dopo tutto quello stare a bagno, erano nere, eppure se le era lavate prima di uscire, ma il grasso era penetrato nelle fessure e nelle righe della pelle. Le dita gli dolevano come mai gl era successo, soprattutto le ultime due falangi e non riusciva a stringere le mani a pugno, come se non avesse più forza in quella parte del corpo che aveva duramente sfruttato fino a quel momento. Gli faceva male la schiena che, stancatasi nel caricare vassoi pieni di piatti dal lavandino alla lavastoviglie e da questa ai riposti, reclamava riposo, anche polpacci e piedi fiaccati dallo stare in piedi per tutte quelle ore, erano indolenziti.
Gli prese lo sconforto pensando che il giorno dopo si sarebbe ripetuta la stessa giornata che stava ora finendo, e pensò anche che un lavoro così era meglio perderlo che trovarlo, ma lui no, proprio non poteva perderlo. Volle provare a distrarsi e cercò a di ricordare tutte le parole nuove apprese quel giorno: scopa, mocio, straccio, spugna, paglietta, asciugare, lavare, pulire, pentola, padella, piatto, bicchiere, posate…
Forse un giorno avrebbe imparato anche la parola sfruttamento.


/Lorenzo Galieni/



leggi la rivista


Stampa il post

Nessun commento: