30 dicembre 2006

Gola

O sesso, o cibo.
Non si dica che i due maggiori piaceri della vita vanno a braccetto e si completano l’uno nell’altro, perché è vero solo nelle leggende, o nei film, come in quello lì dove Juliette Binoche si strafoga di cioccolato farcito di praline dal doppio ripieno, e ciononostante resta sempre in splendida forma, con Jonny Depp che le sbava dietro. No, la realtà è ben diversa, ed è sin dalla combinazione cromosomica che si decide a quali dei due vizi cederai maggiormente nella vita e, come vuole la legge di Murphy, sono rari i casi in cui si possono combinare sesso e cibo con disinvoltura, giacché la logica consequenziale vuole che l’amore per la tavola porti ad azzerare l’attrattiva erotica della propria silhuette.

Francesca era sempre stata convinta di questo. Ogni suo approccio, ogni sua più ridicola storiella per lei era sempre stata una lotta contro il mangiare. Se in condizioni normali un pranzo non era che un pranzo, in presenza di una qualsivoglia relazione lei doveva fare i conti con tutto ciò che determina un pasto, nei minimi termini, e sempre si domandava quale ignoranza porti gli uomini a poter pensare di invitare le donne a cena le prime volte che si invitano a uscire!
Che si mangi qualcosa in casa, in solitudine! Ma che ne sanno loro di quanto poco ci voglia a perdere l’equilibrio quando si cammina su un filo di autostima sottile e sdrucciolevole, tessuto lentamente e faticosamente, nutrendosi invano di tutti quei nobili discorsi sull’essere come si è, sulla bellezza interiore, e su quel chiletto che è tutta salute! No, alla fine è quel filo di panza in più o in meno a fare la differenza, Francesca dentro di sé lo sapeva. Anoressica? Problemi di nutrizione? Assolutamente no. Francesca si amava profondamente, e se una clavicola di tanto in tanto poteva esserle sembrata troppo sporgente, subito si era sentita legittimata a recuperare la zavorra che fortuitamente aveva perso: perché col mangiare non si scherza.

Era arrivata quella sera, una di quelle occasioni che aspetti con l’ansia di chi non mangia da un anno ed è invitato a un pranzo di nozze. Ecco, appunto, sempre al mangiare si va a finire: ed era proprio a questo che pensava Francesca mentre affrontava il dramma della pettinatura: “se mi offrirà di sgranocchiare qualcosa, o di bere roba gassata? Io so l’effetto che mi fa parlare mentre mangio o bevo!”. Le si gonfiava lo stomaco, per primo. Poi quel mix di ansia e aria partiva alla spasmodica ricerca di una delle valvole di sfogo possibili: lei chiaramente si tratteneva, coprendo con un sorriso da Monna Lisa dei lancinanti dolori all’addome. “Oltretutto stasera si va in discoteca, dovrò fare almeno finta di ballare” pensava, mentre i suoi capelli liscissimi e pulitissimi non si tenevano in alcun modo: sciolti le si spaccavano al centro della testa dandole un look “figlia dei fiori” che poco si addiceva all’abitino giromanica nero lucido e al suo fisico niente affatto sottile. Legati le davano l’aria di una signora in balera. Ed erano comunque i suoi capelli, che più se li toccava e più perdevano freschezza, e da lì a fine serata avrebbero avuto l’aspetto di una liquirizia leccata.
Doveva decidersi. Già aveva perso mezza giornata di lavoro solo per prepararsi con tutta la cura utile; era stata in palestra, si era depilata, aveva prenotato le cure dell’estetista con una settimana di anticipo, insomma quello era il massimo che potesse offrire al senso della vista: un’arruffata con le mani sopra la chioma e una sotto la nuca fu infine l’acconciatura, e un fermaglio da portarsi appresso era l’assicurazione di potersi migliorare all’occorrenza, o comunque di avere qualcosa da fare almeno coi capelli nel caso le fossero mancati gli argomenti.

Il problema qui era proprio la cena, perché l’appuntamento con lui e gli amici era dopo.
Il pasto ideale non avrebbe dovuto reimporsi: una fettina ai ferri secca come una suola di scarpe e due foglie d’insalata di numero, per impedire gonfiori anzi tempo, dovevano essere il massimo consentito. Ma, ahimè, quel sabato sera casa di Francesca era ricolma di parenti per il compleanno del fratellino Michele. Già era una colpa andarsene in occasione dei dieci anni del bamboccio, ancor più lo sarebbe stato mangiare da sola.
Il menù di mamma Paola in combutta con la nonna Gigliola differiva da quello tipico natalizio per la sola assenza di panettone e pandoro. Francesca doveva uscire verso le undici, erano appena le nove, l’attendeva una lotta di due ore contro tutti i manicaretti, ma soprattutto contro la bestia, il Mont Blanc previsto a fine cena: in assoluto il suo dolce preferito.
Aveva quasi digiunato per tutto il giorno, onde evitare che la pancetta potesse offendere la linea dell’abitino nero, e ora, per quanto il solo pensiero dell’amore la saziasse, aveva fame. Iniziò a fare tutti i suoi calcoli: mangiando gli affettati dell’antipasto avrebbe mangiato un secondo piatto, e l’olio della melanzana era più o meno quello che poteva concedersi in una cena frugale antispasmi. Quindi non restava poi che il diritto a della verdura e a un pezzetto di pane. Ma ecco arrivare monumentali i cannelloni di nonna Gigliola: be', pensò Francesca, il ripieno è sempre un secondo e in fondo l’affettato non era tanto, la sfoglia è come un pezzetto di pane…e proseguì così, con sottrazioni e associazioni, tra una chiacchiera e l’altra, mangiando uno di tutto fino allo scontro finale. Lo stomaco cercava già di farsi spazio sotto l’abitino, ma il Mont Blanc se ne fregava, e decorato con dieci candeline, giungeva solenne come un faraone, tra le mani di papà Andrea che andò a sistemarlo al posto di Michele, che nel frattempo se n’era già andato a giocare coi cuginetti: il festeggiato non tardò a venire ad accomodarsi in ginocchio sulla sua sedia per soffiare e sputacchiare su
candeline e dolce; mentre le porzioni venivano distribuite tra gli ospiti, compresa l’odiosa cugina Martina che si strafogava di qualsiasi cosa restando sempre un' acciuga, Francesca finse di non vedere la fetta di Mont Blanc destinata a lei: scelse di concentrarsi sui magnifici occhi di Nicola che la stava aspettando, sulle sue spalle tornite e le mani forti e ruvide, di chi non sta mai senza far niente. Si alzò, prese borsa e cappotto e salutando tutti con un larghissimo sorriso uscì a prendere la macchina, inseguita dalle raccomandazioni di Paola.
La pancia sembrava stare in pace e non accusare le conseguenze della scorpacciata d’aria, fatta per disquisire con lo zio Quirino a proposito dell’inutilità delle lauree letterarie, come quella che Francesca aveva appena preso; il vestito in fondo non cascava male.

Sotto casa di Mara c’erano le macchine di un bel po' di amici, ma non quella di Nicola. Pazienza, un’ultima controllata al trucco e giù: una strana sensazione allo stomaco che non era l’ansia. Tra i radunati sotto casa di Mara non c’era traccia di lui, e chiedere dove fosse poteva essere compromettente a quello stato delle cose: o forse no, ma Francesca era fatta così, non sapeva stare senza farsi problemi. Mara corse ad abbracciarla. Mara era un amica vera, le voleva lealmente bene, e Francesca ne voleva a lei. Si conoscevano abbastanza per capire con uno sguardo veloce tra di loro se ci fossero problemi: l’amica tirò per mano Francesca, che aveva già salutato tutti gli altri e le disse che Nicola non era potuto venire perché all’ultimo momento era uscito con altri amici venuti da fuori, che ci tenevano a vederlo. Francesca ripensò al Karma, e a quel telefilm dove il protagonista Earl doveva fare i conti con una forza misteriosa che ti perseguita e trova sempre il modo per punirti del male che fai. Ormai era un po’ che ci credeva per spiegarsi perché non gliene girasse mai una per il verso giusto, ed ora eccola lì a pensare a quali colpe avesse perché il ragazzo con cui aspettava di poter uscire da due settimane improvvisamente avesse cambiato programma. Aveva silurato la festa del fratello? No, in fondo era rimasta fino al dolce. Aveva risposto male a qualcuno? No, quando mai. Aveva mancato qualche impegno? No. Non era cambiato niente della sua vita da quando era uscita con Nicola la prima volta, e quella volta, che tutto andò bene e tutto era sembrato un bell’inizio, non era certo migliore di com’era adesso: la calma con cui Francesca riusciva a convivere con la propria perenne sfiga senza prendersela con nessuno era esemplare.

Si guardò intorno, e come in una sfera di cristallo vide con precisione come sarebbero state le ore successive: sarebbe stata l’unica sola in mezzo ad altre coppie, in un locale dove la musica assordante t’impedisce di fare qualsiasi cosa oltre a ballare, bere fumare e svuotare la vescica. Chiacchierare? Giammai. Mentre parli o meglio urli con qualcuno che è in coppia, ti basta voltarti un attimo che quando ti rigiri questo qualcuno già non può più risponderti perché ha la bocca occupata da due lingue. Ballare? Si, perché no: ma se sei da sola ti trovi a dover schermare gli uomini dai mille tentacoli, che credono tu sia lì sola al solo scopo di rimorchiare qualsiasi cosa respiri. Dopo una nottata così si vedeva uscire dal locale senza voce e coi timpani ovattati, e morire di freddo per raggiungere la macchina, arrivare a casa, alzarsi neanche tardi per via dell’aspirapolvere -perché per Paola la domenica non era tanto il giorno del Signore quanto della signora delle pulizie- star rincoglionita tutto il giorno, e poi ricominciare la settimana.

Allora capì. Il destino le aveva fatto un regalo, e i regali non si scelgono. Aveva deciso lui quale dovesse essere il suo piacere quella sera.
Francesca tornò in mezzo agli altri, e inventò che era passata solo a salutare, che doveva assolutamente tornare a casa perché aveva lasciato sola la madre a rassettare tutto dopo la cena per il fratellino. Tutti si bevvero la scusa perché evidentemente la presenza di Francesca sarebbe stata indifferente: solo qualcuno fece la mossa formale di dire un “ma che ti frega, vieni”, ma Francesca disse di no ringraziando con un sorriso. Lasciò Mara nella tristezza, ma certa che avesse capito e che tanto la tristezza le sarebbe passata in un’oretta.
Salì in macchina e in un batter d’occhio era già a casa. Zio Quirino stava andandosene per ultimo, e per non dargli soddisfazione Francesca le disse di essere tornata perché aveva dimenticato una cosa. I suoi stavano preparandosi per la notte e per fortuna non la sentirono rientrare, Michele dormiva sul divano e lì lo avevano lasciato, gli avevano tolto le scarpe e coperto con un piumone.
In frigo c’era ancora un quarto di Mont Blanc.
Francesca se lo portò al tavolo lungo dove c’era ancora la tovaglia con sopra un deserto di briciole. Si tolse gli stivali a trampolo, si sbottonò quel dannato tubino, scrollò via le briciole dal posto suo, e buttò le gambe sulla sedia di fronte; così mangiò il primo cucchiaio dell’adorato pasticcio di meringa, fiocchi di castagne e zucchero a velo. Non era un orgasmo, non era Nicola, ma in fondo in fondo tutto quello aveva il sapore di una scelta: Francesca pensò al sesso e al cibo che non vanno tanto d’accordo, e che non sono né vizi né peccati, soprattutto quando presuppongono una scelta; e pensò che se esiste il Karma dev’essere davvero un grande stronzo.
Si fidò di sé stessa e si sentì bene, talmente bene che con due bocconi si ritenne soddisfatta.
Rimise il dolce in frigo e se ne andò a letto, curiosa di vedere cosa le avrebbe riservato il nuovo giorno.

/Sara Ceracchi/


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