Era l’inizio del 2009, qualche giorno dopo la fine delle feste natalizie. In Abruzzo, per la precisione tra L’Aquila e Sulmona, lungo la valle segnata dallo scorrere del fiume Aterno, che le dà anche il nome, iniziarono a manifestarsi le prime avvisaglie di un’attività sismica. Scosse e microscosse scuotevano, a volte lievemente e talvolta con più forza, i paesi e i borghi che nei secoli si sono formati, addossati ai monti o lungo il letto del fiume. Dapprima le scosse erano solo un numero di registrazione su qualche sito di rilevazione scientifica, ma col passar del tempo la popolazione iniziò ad avvertirle sempre di più. L’insistenza dell’attività mise in allarme gli aquilani (da intendersi come i cittadini che vivono nella totalità dell’hinterland e non solo nella città), nuovi ad esperienze simili. A dire il vero trecento anni prima, nel 1703 un violentissimo terremoto distrusse buona parte de L’Aquila, e all’inizio del 1900 un altro si abbatté contro la vicina Marsica, ma questi eventi, così lontani nel tempo dall’attualità, non erano propri di chi quei posti li viveva ora (probabilmente appartenevano o sarebbero dovuti appartenere al bagaglio culturale di chi certi fenomeni li studia) . Sui giornali locali iniziarono ad apparire preoccupanti articoli e nelle strade e nelle piazze i discorsi erano catalizzati da un unico argomento: il terremoto. Da più parti giunsero rassicurazioni sulla normalità di quelle scosse e le poche voci controcorrente furono etichettate come sobillatrici del popolo. Passarono un paio di mesi ma l’attività sismica non cessò, anzi, aumentò. Arrivò così l’inizio di aprile e la domenica delle palme più tesa che la storia aquilana moderna ricordi: una giornata interminabile carica di paura e di tensione esplosa in tarda serata con due scosse molto forti, quasi d’avvertimento. Così, come di fronte ad ogni evento non gestibile dall’uomo, le reazioni furono molteplici: la paura fu il comune denominatore che portò qualcuno a dormire per strada, nelle auto, sfidando il freddo, qualcun’altro a vegliare nelle proprie case e qualcun’altro ancora sicuramente a pregare sperando che tutto quel tremare finisse lì. Poi, come un tuono nella notte, il boato che cambiò la storia di tutti. Inutile parlare della distruzione, dell’annientamento, della polvere e del fumo portate da quella scossa di una potenza inaudita. Restano ora i nomi e le foto di chi non ce l’ha fatta, quei 308 conterranei, abruzzesi, italiani. Restano ancor di più le migliaia di storie di chi, dopo quel tragico 6 aprile, ha provato a ripartire, a ricominciare, perché tutto quello che era stato creato prima di quel “giorno zero”, non fosse semplicemente etichettato come passato. Quelli che, con la bocca impastata dalla polvere della distruzione, a pochi minuti dalla “botta”, hanno iniziato a scavare a mani nude per cercare un fratello, un vicino di casa, un amico seguendo le grida soffocate dalle macerie. E non hanno perso la voglia e la forza di lottare dopo aver contato uno ad uno i propri cari andati, dopo aver allineato quelle bare sul piazzale in attesa della benedizione. Ecco allora chi si giura amore all’ombra di un campanile, ferito dalle crepe, che segna ancora le 3.32, orario indelebile di quella tragedia. E chi, dopo anni ed anni di studio e di ricerca, si ritrova in una mattina di fine aprile a diventare dottoressa, discutendo la propria tesi di laurea sotto l’azzurro di una tenda della Protezione Civile. E chi, armato solo di una chitarra, ferma nei versi di una canzone le foto di tanti momenti belli passati tra i vicoli del proprio paese, suggellando una promessa più che una speranza: Villa vivrà!
27 dicembre 2006
2009
La natura, si sa, è ricca di forze. L’acqua, il fuoco, la terra non sono solo elementi ma strumenti di un sistema attraverso i quali si possono notare le evoluzioni di questo pianeta. L’uomo da sempre ha cercato di controllare e di gestire questi elementi, cercando ove possibile di trarne addirittura beneficio. Ma non sempre la forza della natura risulta gestibile e controllabile e allora l’uomo è lì che ne osserva i mutamenti cercando di coglierne indicazioni a volte utili per scongiurare delle tragedie. E così si monitorizza l’attività delle maree, dei vulcani, dei ghiacciai perenni e dei terremoti. Non sempre, però, i segnali che arrivano vengono decodificati correttamente ed utilizzati saggiamente per il bene comune. Nascono così tragedie che segnano popoli, paesi ed epoche.
Era l’inizio del 2009, qualche giorno dopo la fine delle feste natalizie. In Abruzzo, per la precisione tra L’Aquila e Sulmona, lungo la valle segnata dallo scorrere del fiume Aterno, che le dà anche il nome, iniziarono a manifestarsi le prime avvisaglie di un’attività sismica. Scosse e microscosse scuotevano, a volte lievemente e talvolta con più forza, i paesi e i borghi che nei secoli si sono formati, addossati ai monti o lungo il letto del fiume. Dapprima le scosse erano solo un numero di registrazione su qualche sito di rilevazione scientifica, ma col passar del tempo la popolazione iniziò ad avvertirle sempre di più. L’insistenza dell’attività mise in allarme gli aquilani (da intendersi come i cittadini che vivono nella totalità dell’hinterland e non solo nella città), nuovi ad esperienze simili. A dire il vero trecento anni prima, nel 1703 un violentissimo terremoto distrusse buona parte de L’Aquila, e all’inizio del 1900 un altro si abbatté contro la vicina Marsica, ma questi eventi, così lontani nel tempo dall’attualità, non erano propri di chi quei posti li viveva ora (probabilmente appartenevano o sarebbero dovuti appartenere al bagaglio culturale di chi certi fenomeni li studia) . Sui giornali locali iniziarono ad apparire preoccupanti articoli e nelle strade e nelle piazze i discorsi erano catalizzati da un unico argomento: il terremoto. Da più parti giunsero rassicurazioni sulla normalità di quelle scosse e le poche voci controcorrente furono etichettate come sobillatrici del popolo. Passarono un paio di mesi ma l’attività sismica non cessò, anzi, aumentò. Arrivò così l’inizio di aprile e la domenica delle palme più tesa che la storia aquilana moderna ricordi: una giornata interminabile carica di paura e di tensione esplosa in tarda serata con due scosse molto forti, quasi d’avvertimento. Così, come di fronte ad ogni evento non gestibile dall’uomo, le reazioni furono molteplici: la paura fu il comune denominatore che portò qualcuno a dormire per strada, nelle auto, sfidando il freddo, qualcun’altro a vegliare nelle proprie case e qualcun’altro ancora sicuramente a pregare sperando che tutto quel tremare finisse lì. Poi, come un tuono nella notte, il boato che cambiò la storia di tutti. Inutile parlare della distruzione, dell’annientamento, della polvere e del fumo portate da quella scossa di una potenza inaudita. Restano ora i nomi e le foto di chi non ce l’ha fatta, quei 308 conterranei, abruzzesi, italiani. Restano ancor di più le migliaia di storie di chi, dopo quel tragico 6 aprile, ha provato a ripartire, a ricominciare, perché tutto quello che era stato creato prima di quel “giorno zero”, non fosse semplicemente etichettato come passato. Quelli che, con la bocca impastata dalla polvere della distruzione, a pochi minuti dalla “botta”, hanno iniziato a scavare a mani nude per cercare un fratello, un vicino di casa, un amico seguendo le grida soffocate dalle macerie. E non hanno perso la voglia e la forza di lottare dopo aver contato uno ad uno i propri cari andati, dopo aver allineato quelle bare sul piazzale in attesa della benedizione. Ecco allora chi si giura amore all’ombra di un campanile, ferito dalle crepe, che segna ancora le 3.32, orario indelebile di quella tragedia. E chi, dopo anni ed anni di studio e di ricerca, si ritrova in una mattina di fine aprile a diventare dottoressa, discutendo la propria tesi di laurea sotto l’azzurro di una tenda della Protezione Civile. E chi, armato solo di una chitarra, ferma nei versi di una canzone le foto di tanti momenti belli passati tra i vicoli del proprio paese, suggellando una promessa più che una speranza: Villa vivrà!
Era l’inizio del 2009, qualche giorno dopo la fine delle feste natalizie. In Abruzzo, per la precisione tra L’Aquila e Sulmona, lungo la valle segnata dallo scorrere del fiume Aterno, che le dà anche il nome, iniziarono a manifestarsi le prime avvisaglie di un’attività sismica. Scosse e microscosse scuotevano, a volte lievemente e talvolta con più forza, i paesi e i borghi che nei secoli si sono formati, addossati ai monti o lungo il letto del fiume. Dapprima le scosse erano solo un numero di registrazione su qualche sito di rilevazione scientifica, ma col passar del tempo la popolazione iniziò ad avvertirle sempre di più. L’insistenza dell’attività mise in allarme gli aquilani (da intendersi come i cittadini che vivono nella totalità dell’hinterland e non solo nella città), nuovi ad esperienze simili. A dire il vero trecento anni prima, nel 1703 un violentissimo terremoto distrusse buona parte de L’Aquila, e all’inizio del 1900 un altro si abbatté contro la vicina Marsica, ma questi eventi, così lontani nel tempo dall’attualità, non erano propri di chi quei posti li viveva ora (probabilmente appartenevano o sarebbero dovuti appartenere al bagaglio culturale di chi certi fenomeni li studia) . Sui giornali locali iniziarono ad apparire preoccupanti articoli e nelle strade e nelle piazze i discorsi erano catalizzati da un unico argomento: il terremoto. Da più parti giunsero rassicurazioni sulla normalità di quelle scosse e le poche voci controcorrente furono etichettate come sobillatrici del popolo. Passarono un paio di mesi ma l’attività sismica non cessò, anzi, aumentò. Arrivò così l’inizio di aprile e la domenica delle palme più tesa che la storia aquilana moderna ricordi: una giornata interminabile carica di paura e di tensione esplosa in tarda serata con due scosse molto forti, quasi d’avvertimento. Così, come di fronte ad ogni evento non gestibile dall’uomo, le reazioni furono molteplici: la paura fu il comune denominatore che portò qualcuno a dormire per strada, nelle auto, sfidando il freddo, qualcun’altro a vegliare nelle proprie case e qualcun’altro ancora sicuramente a pregare sperando che tutto quel tremare finisse lì. Poi, come un tuono nella notte, il boato che cambiò la storia di tutti. Inutile parlare della distruzione, dell’annientamento, della polvere e del fumo portate da quella scossa di una potenza inaudita. Restano ora i nomi e le foto di chi non ce l’ha fatta, quei 308 conterranei, abruzzesi, italiani. Restano ancor di più le migliaia di storie di chi, dopo quel tragico 6 aprile, ha provato a ripartire, a ricominciare, perché tutto quello che era stato creato prima di quel “giorno zero”, non fosse semplicemente etichettato come passato. Quelli che, con la bocca impastata dalla polvere della distruzione, a pochi minuti dalla “botta”, hanno iniziato a scavare a mani nude per cercare un fratello, un vicino di casa, un amico seguendo le grida soffocate dalle macerie. E non hanno perso la voglia e la forza di lottare dopo aver contato uno ad uno i propri cari andati, dopo aver allineato quelle bare sul piazzale in attesa della benedizione. Ecco allora chi si giura amore all’ombra di un campanile, ferito dalle crepe, che segna ancora le 3.32, orario indelebile di quella tragedia. E chi, dopo anni ed anni di studio e di ricerca, si ritrova in una mattina di fine aprile a diventare dottoressa, discutendo la propria tesi di laurea sotto l’azzurro di una tenda della Protezione Civile. E chi, armato solo di una chitarra, ferma nei versi di una canzone le foto di tanti momenti belli passati tra i vicoli del proprio paese, suggellando una promessa più che una speranza: Villa vivrà!
/Mauro Giorgini/
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