31 dicembre 2006

Tanto rumore per nulla

Acilia è sempre stata una piccola isola felice. Almeno così io la ricordo. Vie di negozi illuminati e palazzi che si innalzano sfuggendo a quel tipo di edilizia chiamata “popolare”. La piazza, la chiesa, i bar come semplici punti d’incontro dove le persone potevano relazionarsi quotidianamente. Rispetto a molte altre zone periferiche di Roma è stata sempre considerata con un surplus di vivibilità. Sembrava così lontana dal caos e dallo smog di altri quartieri e così diversa dalla condizione di vita di luoghi come Via di Bravetta o i ponti del Laurentino 38. Ma ecco, tutto ad un tratto, come un fulmine nel cielo terso di fine dicembre, abbattersi sugli aciliensi un evento che per i più è stato visto come una sciagura. Ma torniamo indietro nel tempo. Fine estate 2007, Via di Valle Porcina. Le ruspe iniziano a lavorare dentro un grande recinto delimitato da bandoni metallici. Gli operai si muovono freneticamente e gli occhi di chi vive nelle case e nelle vie limitrofe vedono crescere a tempo di record due caseggiati attigui di un flebile color giallo zafferano. Molte le ipotesi sulle destinazioni di quei due palazzi: chi pensava dovessero ospitare degli uffici, chi semplicemente appartamenti residenziali. Inizia, poi, a serpeggiare la voce che vuole quelle imponenti strutture di cemento armato, alloggi che verranno assegnati a famiglie in emergenza abitativa, ovvero quei nuclei familiari impossibilitati a pagare un canone di locazione per mancanza di reddito o per l’esiguità dello stesso. Praticamente l’ultima fascia della piramide sociale secondo molti. Dai più emarginati. Ed ecco rincorrersi giorni di ansie, di paure e di polemiche fin quando con le idi di dicembre, il clima natalizio distoglie l’attenzione verso altri, spesso profani, pensieri. Ma proprio i giorni del Natale nascondono delle sorprese. Di notte, infatti, mentre fuori piove e nelle case la tradizione popolare si sposa con le credenze religiose, qualcosa inizia a muoversi. Come i deportati, i primi nuclei familiari vengono introdotti in uno dei caseggiati di Via di Valle Porcina, il secondo, quello più distante dalle case attorno. In fretta e furia, perché nessuno se ne accorga e perché nessuno possa rallentare o intralciare le operazioni. Il necessario con sé, nulla più. Tutto in estremo silenzio. Vengono proprio dal residence di Via di Bravetta e dai ponti del Laurentino 38, quelle famiglie in gravissime difficoltà economiche ai quali il Comune di Roma ha assegnato un alloggio. Definitivo? Questa è una delle domande che nasce, con la scoperta del “fattaccio”, in tutti quei cittadini che avevano visto crescere così velocemente quelle strutture e che a lungo si erano domandati cosa avrebbero ospitato. Sdegno, indignazione, abbandono da parte delle istituzioni: questo è quello che viene denunciato dagli abitanti di Via di Valle Porcina e non solo. Infatti, nei primissimi giorni di gennaio, una fiaccolata con centinaia di aciliensi, illumina le vie del quartiere, per dare voce alla propria protesta, fino a terminare il loro cammino proprio davanti alle famose case giallo zafferano. C’è chi si lamenta pensando al futuro dei propri figli, chi all’imminente svalutazione della propria casa, chi semplicemente accusa quelle famiglie di essere nuclei di delinquenti che faranno aumentare il livello di criminalità nel quartiere. Si susseguono così sit-in, lettere aperte sui giornali, interrogazioni nel parlamentino lidense, ma anche a Roma, dove l’eco del malcontento e delle proteste è arrivato forte e chiaro. L’amministrazione locale denuncia l’estraneità all’operazione e anzi se ne dice all’oscuro di tutto. Nell’aula Giulio Cesare temporeggiano. Intanto, in Via di Valle Porcina, continuano a ritmo quotidiano le scene, quasi da caccia alle streghe, di chi non vorrebbe quelle famiglie lì

dove il comune ha deciso di alloggiarle. Poi di mezzo le elezioni, un anno e mezzo fa, con promesse bi-partisan di sanare quella situazione. Oggi, un anno e mezzo dopo, tutti i novanta alloggi ospitano famiglie con emergenza abitativa. Pian piano altre famiglie sono state accompagnate lì dalle zone meno agiate di Roma. Da lontano, chi passa, non si accorge di nulla, se non della grande recinzione che gli è stata costruita a delimitarne l’area. Attorno non si respira una bell’aria: chi, come me, si avvicina per fare qualche domanda ed ascoltare qualche storia, viene guardato con occhi sospettosi. La gente non ha voglia di parlare o, meglio, le è stata fatta passare. C’è un corpo di guardie che vigila giorno e notte tutt’attorno al perimetro del caseggiato. Sono loro gli unici a scambiare qualche parola con me, e il comune denominatore è sempre lo stesso: nulla da dire. Ad oggi quindi possiamo dire che la vita ad Acilia non sia cambiata poi così tanto e che l’isola felice che io ricordavo è rimasta la stessa. Se qualche cambiamento poi c’è stato, in peggio si intende, non credo sia dovuto alle persone che compongono quelle famiglie, rinchiuse là dentro, stretti come i polli nelle loro gabbie, liberi di starnazzare solo nell’aia lì antistante. Fuori dal mondo e dalla cittadinanza.
Semplicemente emarginati.

/Mauro Giorgini/


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